Siamo nell'era del personal branding, in cui ogni individuo proietta la propria immagine al mondo definendo chi è e cosa rappresenta. Il personal branding combina valori, capacità, esperienze e storie personali, permettendoci di distinguerci nelle interazioni con gli altri.
Sebbene, oggi, sia ampiamente utilizzato, questo concetto non è così recente come potrebbe sembrare. Già nel 1997, Tom Peters, allora CEO di FastCompany, rinomata rivista newyorkese di economia, business e tecnologia, scriveva in "The Brand Called You": "Everyone has a chance to be a brand worthy of remark" (Ognuno ha la possibilità di essere un marchio degno di nota).
Il Personal Brand: l'impatto dei valori di un marchio sui clienti
Un rapido ripasso di microeconomia ci ricorda che, inizialmente, quando l'offerta era inferiore alla domanda, l'attenzione era rivolta al prodotto: l'obiettivo principale era produrre il più possibile. Successivamente, con l'aumento dell'offerta rispetto alla domanda, si è verificato un incremento dei beni invenduti sul mercato, portando alla necessità di una pubblicità costante e ripetitiva: chi investiva di più in pubblicità vendeva di più.
Quando anche la pubblicità ha iniziato a perdere parte del suo potere, le aziende hanno dedicato tempo e risorse al miglioramento del proprio posizionamento sul mercato, focalizzandosi sui valori del brand. In questo modo, il cliente non acquistava solo il prodotto "X", ma lo faceva anche perché ne condivideva i valori e la filosofia dell'azienda.
Oggi, tuttavia, sembra che anche questa strategia stia perdendo efficacia. Al suo posto emerge il personal brand, dove l'attenzione si sposta dal marchio aziendale alla persona che lo rappresenta. In altre parole, il marchio non è più associato solo a un'azienda, ma a un nome e a un volto.
Esempi lampanti di questo fenomeno sono: Elon Musk, più “famoso” di Tesla; Bill Gates, con più follower di Microsoft; e il mito di Steve Jobs, che ha radici più profonde del marchio Apple.
La domanda sorge spontanea: perché accade questo? La risposta risiede nel fatto che il personal branding permette di comprendere e comunicare quegli aspetti che rendono una persona unica, trasmettendo i suoi valori agli altri, siano essi clienti, colleghi, potenziali datori di lavoro o esperti del settore. Oggi, questa strategia si rivela più efficace del marchio aziendale stesso.
E le organizzazioni no profit come si muovono?
Mentre le organizzazioni no profit eccellono nella comprensione e condivisione dei valori, spesso non sfruttano appieno il potenziale del personal branding. Questo dovrebbe spingere tutti noi che operiamo nel Terzo Settore a riflettere profondamente su questo tema per compiere quel "salto di qualità" necessario al bene dell'organizzazione che rappresentiamo.
Oggi, più che mai, è fondamentale "metterci la faccia" in ogni situazione, raccontando le iniziative, i progetti e le attività positive delle realtà no profit attraverso volti riconoscibili. Mostrare il proprio viso, accettando sia i complimenti che le critiche, non solo apre le porte delle organizzazioni, ma aumenta il livello di fiducia sia degli attuali donatori che di quelli futuri.
Farsi conoscere in prima persona non significa ostentare la propria bravura e competenza, ma rappresenta il racconto del proprio legame quotidiano e lavorativo con l'ente per cui si opera. Il personal branding non è riservato solo a chi sta al vertice, ma è una pratica che tutti, indipendentemente dal ruolo che si ricopre, dovrebbero adottare.
In sostanza, chi fa personal branding contribuisce al successo della propria organizzazione, diventando una finestra aperta sul mondo del Terzo Settore. Utilizzare la propria persona come strumento per coinvolgere gli altri nell’operato del proprio ente significa “far vivere” l’ente stesso attraverso i valori nei quali si crede; tutto questo, dunque, rappresenta una grande opportunità che non dobbiamo farci sfuggire.
Foto di Los Muertos Crew from Pexels
Comments